martedì 22 dicembre 2015

Analisi dell'opera: Madonna col Bambino e San Giovannino


Tavola con Madonna, Gesù bambino e GiovanninoProprio in tempi, come il nostro, in cui il pregiudizio (basato sul perdurante fanatismo romantico per il titanico atto creativo) continua a privilegiare l’originalità, e dunque l’invenzione contenuta nell’opera d’arte, degradandone, ad esempio, la ripetizione, anche per mano del suo inventore e legittimo proprietario, a replica (ciò che sempre implica una squalificante banalità), si dovrebbero allora maggiormente apprezzare anche i falsi creativi, cioè quei falsi che non sono mere ripetizioni d’opere già note, ma anche (seppur sempre d’intenzione truffaldina) ricreazioni d’opere nuove nel plausibile stile dell’Autore imitato. Per essere accettate, esse devono corrispondere alla visione che si ha dell’artista coinvolto nel momento dell’imitazione pur sempre datata e fatalmente caduca. La scoperta del loro status spurio richiede il passare del tempo, quello necessario a che di quella visione si rivelino gli errori; ma, d’altro canto, consente al lettore moderno di vedervi riflesso come in uno specchio i valori in auge all’epoca del falso, attribuiti all’artista per accrescerne la gradevolezza presso gl’immediati destinatari. Sicché non meraviglia che anche a noi appaia stupenda questa Madonna col Bambino e San Giovannino, e quasi per gli stessi motivi che fin dall’Ottocento ne facilitarono l’approdo, in una prestigiosa Collezione nobiliare milanese e poi la gelosa conservazione come della più bella tavola mai dipinta da Bernardino Luini. Questa Nostra Donna dall’ampia fronte si prova infatti, con gran successo, a conciliare una misteriosa evasività camuffata da modestia, di stampo leonardesco, col carattere beatamente sereno della sua fiorente bellezza (che vorrebbe imprimerle un suggello luinesco). In realtà, essa persegue per l'artista lombardo l’idea d’una fase formativa di spinta soggezione leonardesca (come ad esempio quelle di Cesare da Sesto o Yanez de la Almedina), del tutto plausibile vista la predominanza di Leonardo a Milano, ed anzi la sua presenza fisica ancora alla fine del primo decennio del Cinquecento per la realizzazione della versione londinese della Vergine delle Rocce. Essa troverebbe appoggio nella sicura derivazione della presente tavola dalla Sant’Anna Metterza con San Giovannino ora al Louvre,
  ove soltanto si sciolto il piramidale gruppo Madre-Figlia, eliminandone l’imbarazzante instabilità col ridurlo alla sola Vergine, ora ricondotta a presenza maestosamente sovrastante, assumendo il ruolo regale che le compete. Lo testimonierebbe anche, del resto, la deduzione dalla tavola parigina del gruppo del Bambino che gioca coll’agnello, sia pur specularmente rovesciato.. Senonché questa deduzione dovrebbe essere avvenuta prima di quel 1512 in cui il Luini dipinge e data il Madonnone di Chiaravalle, in modi del tutto classicheggianti che, ove fosse necessario, lo mostrerebbe già emancipato dalla supposta dipendenza leonardesca, almeno nella misura che gli sarà poi sempre propria: mentre in realtà è certo che la Sant’Anna Metterza non fu mai a Milano prima del 1520, quando, essendo rimasta giacente tra i beni lasciati da Leonardo, vi fu condotta, forse da Francesco Melzi di ritorno da Amboise (è oggi conservata al Louvre perché donata al suo Re dal cardinale Richelieu, che l’ebbe nel 1629 all’assedio di Casale). E del resto, quest’idea ha potuto suonare attendibile soltanto fino a quando, negli anni ‘70 nel Novecento, s’è scoperta la vera, e sorprendente, fase giovanile di Bernardino Luini, nient’affatto leonardesca e del tutto dipendente, invece, da Marco Marziale e Bramantino: come documentano ad esempio, il Compianto di Cristo del Museo di Budapest, datato1506, e la Sacra Conversazione dello Jacquemart André, datata 1507, . In realtà, ancor più, ed a prima vista, allarmano sia la risonanza dell’ampio paese retrostante, che riesce a porre sulle spalle della Vergine l’incombente minaccia di candide montagne marmoree (un dato leonardesco, ma limitato all’Annunciazione di San Leonardo a Scopeto, che il vero Luini non poté mai conoscere), che l’evasività troppo spiccia del velato orizzonte acqueo, eccessivamente sintetica per un autentico tardoquattrocentista. Allo stesso modo, sarebbe stato per lui irrealizzabile il profondo bleu cobalto del manto della Vergine; ed addirittura per lui inconcepibile il raso drappeggiato come velo della Vergine, rivelatore pezzo di bravura da cui l’ottocentista falsario non è riuscito ad esimersi. A queste osservazioni si devono aggiungere quelle tecniche del lume eccessivamente flavo, della magrezza della materia e della mancanza d’ogni craquelure e segno d'invecchiamento della vernice. Così posti in allarme, non è difficile riconoscere come la presente composizione derivi da una molto tarda parafrasi del Luini del soggetto leonardesco, (del terzo decennio del Cinquecento, quando quel prototipo era ormai a Milano) documentata dal dipinto già in Collezione Lazzaroni Roma, che significativamente anticipa tutta la parte bassa del nostro, rinunciando all’intenibile pausa di paesaggio retrostante (che, al solito, è invece delineato come soffocantemente inespressivo) ed omettendo anche l’altro dato maggiormente sospetto, ovvero l’ambiguità maliziosa della Vergine. Del resto, che la tavola leonardesca, quando pervenne a Milano, divenisse spunto di riflessione per il Luini maggiore è documentato anche dall’affresco dello stesso soggetto nel lunettone di santa Maria degli Angeli a Lugano (dipinto verso il 1629) assai meno ambiguamente leonardesco, improntato cioè alla solita serenità liliale, ed un poco stucchevolmente incosciente, del vero Luini). Si deduce dunque che la tavola qui discussa è una ricreazione ottocentesca, probabilmente d’ambito milanese (nella stessa logica della copia del Molteni del Matrimonio della Vergine di Raffaello, ormai giunta a Brera) del dipinto già Lazzaroni, affascinante per via delle geniali ma equivoche variazioni in chiave leonardesca di cui s’è detto.

lunedì 14 dicembre 2015

Pseudo Bernardino Luini


Non è certo la prima volta che nei nostri negozi transitano dipinti di eccellenza: ricordiamo lo splendido San Michele Arcangelo di Giulio Cesare Procaccini, la Dama del Licinio, l'affascinante Battesimo di Cristo di Albani, solo per citarne alcuni. Oggi vogliamo presentare un'opera presente su Anticonline, ovvero un dipinto raffigurante la Madonna, Gesù Bambino e San Giovannino, copia di ambito lombardo di inizio ‘800, che alla sua straordinaria qualità aggiunge il fascino di una storia da raccontare, che proviamo qui a riassumere, rimandando il lettore al ben più esaustivo saggio del critico d'arte Angelo Dalerba che segue questo articolo.

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L’autografia può essere ricondotta come ipotesi (non dimostrabile e nemmeno in fondo necessaria, ma che ci introduce in un clima culturale che spira potente dalla tavola stessa) a Giuseppe Molteni (1800-1867), grande pittore, nato come restauratore e fascinoso riproduttore di copie, senza ancora l’ambiguità del falso d’intenzione, ma già precocemente nello spirito del revival dell’antico che attraverserà in modo differente tutto l’800. Proviamo quindi a ripercorrere la storia di questa tavola a partire dai dati a nostra disposizione: il dipinto, su tavola antica, proviene dalla famiglia L. che lo possiede dal terzo quarto dell’800. Fu acquistato ad una cifra assai importante come opera di gran pregio di Bernardino Luini, e sempre tramandato in famiglia, di generazione in generazione, come opera di eccezionale valore, opinione del resto confermata da antiquari ed esperti d’arte dell'epoca. Negli anni '60 la famiglia cominciò ad indagare sull’opera in modo più preciso, ed arrivarono i primi dubbi: l'evoluzione della critica d'arte, gli studi pubblicati, la maggiore accessibilità a repertori di immagini, iniziò a scalfire il mito di un'attribuzione tanto eccezionale. Restano di quel periodo le lettere inviate e ricevute dai periti di Sotheby, di Christie’s, del curatore della mostra monografica su Bernardino Luini, testimoni della giustificabile fatica della famiglia a rinunciare alla certezza di un possesso così prestigioso e alle conseguenti valutazioni economiche iperboliche ricevute negli anni. I mezzi di indagine più moderni hanno aiutato a risolvere la questione: la tavola è stata sottoposta negli anni '70 a indagine radiografica e, da quando è venuta in nostro possesso, a questa abbiamo aggiunto un'analisi dei pimenti stilistica affidata ad Angelo Dalerba, critico d'arte di grande competenza, acquisita in più di quarant'anni di lavoro sulla pittura antica, e un'analisi dei pigmenti affidata ad una restauratrice. Proprio da queste indagini scaturisce l'attribuzione di una prima stesura ad un restauratore-pittore della prima metà dell’800 (i pigmenti sono riconducibili a pigmenti usati a partire dal '700). Ma a questo punto la storia si complica, assumendo un'interessante inclinazione al “giallo”, ben spiegata nel saggio di Dalerba: la radiografia evidenzia un restauro di pochi decenni successivo che, oltre ad alcuni ritocchi ai volti, altera in modo significativo il paesaggio alle spalle della figura principale, introducendo, in modo piuttosto incoerente, un chiaro riferimento a Leonardo nell'innalzamento delle montagne a sinistra e un cedimento ad un gusto decisamente moderno nella velatura del paesaggio lacustre sulla destra. Se dunque nella prima stesura, copia di opera del Luini, non era ravvisabile alcun intento fraudolento, in queste modifiche invece si può percepire l’operazione del falsario (presumibilmente un primo proprietario, forse un antiquario?), che ha reso l’opera più vicina possibile ai modelli che all’epoca riconducevano a Leonardo, spostando in modo ambiguo l’opera a metà tra Leonardo e Luini, per indurre il compratore a pensare ad una “scoperta sensazionale”. Oggi a noi l’operazione pare ingenua: il paesaggio a destra con la sua caratteristica di indefinito che è frutto di tutta un'evoluzione pittorica non regge all'analisi stilistica come opera di autore cinquecentesco, e altrettanto incongruenti e facilmente confutabili a partire da dati storici sono gli elementi di sovrapposizione presenti nella tavola tra opere di Luini e di Leonardo. Eppure l’effetto è di una straordinaria bellezza e fascino: come sottolineato da Dalerba, ci troviamo di fronte ad una copia di eccezionale fattura, riverente omaggio ad uno dei più fecondi periodi della pittura italiana, ma anche opera di intrinseco valore, che ci introduce nella ricchissima atmosfera culturale del primo '800 italiano e ci testimonia della straordinaria perizia del suo pur ignoto autore.



mercoledì 11 novembre 2015

Georges De Feure

Georges de Feure (Parigi 1868-1943), nato Georges Joseph van Sluyters, figlio di un benestante architetto olandese di Parigi fu un artista versatile. Allievo di Cheret, ha creato dipinti, mobili, porcellane e ceramiche, moquette, argenteria e gioielli così come illustrazioni i ben noti manifesti pubblicitari. É stato anche scenografo e designer d'interni.
Nel 1890 diventa allievo di Jules Chéret, progetta i manifesti per il Salon des Cent, Loie Fuller e Thermes Liegois. I suoi dipinti sono stati esposti presso la Societé Nationale nel 1894, al Salon de la Rose Croix del 1893 e il 1894, e al 1896 Secessione di Monaco. In questo periodo, è stato anche progettista interni ricoprendo la carica di 'Professore di Arti Decorative' presso l'Ecole des Beaux-Arts. Alcune delle migliori opere di De Feure sono proprio i manifesti fatti nello stile Art Nouveau, di solito contenente eleganti giovani donne dipinte nei toni del marrone, verde e rosa, con influenze giapponesi. De Feure fu anche pittore ed acquarellista, la sua ispirazione simbolista fu la figura femminile nelle sue componenti erotico-sadiche in una garbata ed allusiva simbologia floreale. Samuel Bing venne a conoscenza delle opere di George De Feure dopo aver visto molti dei i suoi dipinti esposti nei saloni parigini e le illustrazioni per riviste. Nel 1894 De Feure, spostato dalla pittura alla progettazione di arti decorative, espone mobili decorati e ceramica al Salon de la Nazionale Beaux Arts. Era conosciuto per la creazione di mobili di fascia alta destinati ad acquirenti di elite. De Feure divenne rapidamente uno dei migliori designer della Maison de l’Art Nouveau, realizzando alcuni fra i più delicati mobili liberty del periodo. Paraventi, divanetti e poltroncine di snella gracilità realizzati in legno lievemente intagliato ed inciso a motivi vegetali, accostato spesso a stoffe dai colori tenui e dai disegni raffinati che rinsaldavano il legame con la grande tradizione di ebanisti, scultori, decoratori, stuccatori e tappezzieri attivi negli allestimenti regali del Settecento francese ricalcando, contemporaneamente, anche le stesse caratteristiche della sua arte grafica. Pur non avendo mai firmato un contratto in esclusiva con Bing, De Feure ha lavorato principalmente per il rivenditore parigino. De Feure venne premiato con la medaglia d’oro nel 1900 all’ Exposition Universelle di Parigi. I suoi lavori sono stati presenti nella galleria di Bing dal 1895 fino alla sua chiusura nel 1904, un anno prima della morte di Bing. Nel 1902 il suo lavoro è stato presentato in occasione della prima Salon Des Industries Du Mobilier al Grand Palais di Parigi. Prima dello scoppio della WW1, si trasferì in Inghilterra, dove lavorò principalmente come scenografo. Nel 1928 De Feure tornò a Parigi dove venne nominato professore presso l'École Nationale Supérieure des Beaux-Arts. Ha continuato a lavorare ed insegnare per tutto il periodo dell’Art Deco fino alla sua morte nel 1943. Le opere disponibili su Anticonline Il mobilio in legno dipinto che proponiamo ricalca per stile costruttivo e caratteristiche decorative le tipiche produzioni di George De Feure di inizio secolo.
 Salotto De Feure

Il salotto è composto da un divanetto a due posti, una coppia di poltroncine, quattro sedie ed un tavolino rettangolare.

Divanetto de Feuredivanetto de feure

  Le analogie stilistiche tra il nostro salotto dalle linee sinuose e morbide e il divano di George De Feure presente al museo danese di arte e design di Copenaghen sono evidenti.

  de Feure de feure seduta

Le volute delicatamente sinuose che caratterizzano il salotto e il motivo dello schienale traforato a tema floreale, appaiono molto simili all’esemplare museale e perfettamente ascrivibile agli stilemi tipici della produzione dell’artista parigino.      

  Bibliografia Liberty Art Nouveau - Giunti Editore - Lara Vinca Masini Il mobile del Novecento -De Agostini- Ornella Selvafolta Wikipedia.org

lunedì 2 novembre 2015

L’Art Nouveau parigina e la Maison Bing


L’avvento del nuovo secolo, accompagnato da una spinta di forti cambiamenti sociali e di costume, porterà in tutta Europa e non solo una voglia di rinnovamento e novità che condizionerà profondamente le produzioni artistiche a cavallo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Lo stile che si imporrà dominante prenderà nomi e peculiarità differenti a seconda delle nazioni europee e anche oltreoceano, ma convergerà indiscutibilmente verso quella che oggi definiamo come l’Arte Nuova. Sotto il termine Art Nouveau sono quindi raggruppate molte variazioni stilistiche il cui scopo era comunque il medesimo: in ogni paese gli artisti cercarono di liberare il loro lavoro dai preconcetti e dalle restrizioni imposte dal passato, sradicando il significato stesso di arte elitaria e classista per gettar le basi di quello che oggi chiameremmo un concetto globale di Design internazionale. Non deve stupire, quindi, la variabilità di opere liberty che si produssero in questo periodo e che vollero spaziare negli ambiti più diversi; dalla realizzazione architettonica di interi quartieri cittadini, alle straordinarie costruzioni in ghisa delle stazioni della metropolitana parigina, passando per sinuosi arredi da salotto fino ad arrivare alla zuccheriera o al set di posate di uso quotidiano.  
Lo sviluppo dell’Art Nouveau in Francia e la Bottega Bing
Siegfried "Samuel" Bing (Amburgo, 1838 – Vaucresson, 1905) è stato un mercante d'arte e critico d'arte tedesco naturalizzato francese; fondatore della galleria d'arte e negozio L'Art Nouveau - La Maison Bing a Parigi, e della rivista Le Japon artistique, fu un punto di incontro per diversi artisti come Edvard Munch, Auguste Rodin, Henri de Toulouse-Lautrec, Georges-Pierre Seurat e molti altri. Fu la sua galleria ad ispirare il nome del movimento artistico legato alla Francia dell'epoca, chiamato, appunto, Art Nouveau. 
Nato ad Amburgo, in Germania, da una famiglia benestante, suo padre era decoratore industriale di ceramiche. Specializzatosi sull'arte giapponese, Bing studiò prima con suo padre e poi si trasferì a Parigi, nel 1854, per lavorare nella società del padre. Dopo la fine della Guerra Franco-Prussiana, fondò una società per il commercio di opere artistiche, importando principalmente dal Giappone. Durante l'Esposizione Universale del 1867, il padiglione di Bing, ricevette un premio speciale. Da quel momento, il mercante iniziò a farsi un nome all'interno non solo dell'ambiente commerciale ed espositivo, ma anche in quello artistico. Durante un viaggio negli Stati Uniti nel 1894, commissionatogli dal governo francese per studiare la situazione artistica americana, Bing incontrò Louis Comfort Tiffany, mastro vetraio, con il quale iniziò una collaborazione. Da lì, continuò il suo viaggio per tutta l'Europa, cercando ispirazione ed artisti per le sue mostre. Il risultato del viaggio fu la nascita, a Parigi, della galleria d'arte L'Art Nouveau - La Maison Bing, arredata da Herny Clemens Van De Velde che, nel dicembre del 1895 ospitò una mostra di diversi artisti europei. Bing partecipò nuovamente all'Esposizione Universale di Parigi, nel 1900, dove gli oggetti da lui presentati ebbero un grande successo di pubblico e di critica. Fu soprattutto in questa occasione che trionfarono i mobili e i complementi d’arredo di Guimard, Majorelle, Gaillard, De Feure e molti altri che si aggiungevano ai nomi di artisti fondamentali come Tiffany, Rodin, Mackintosh, Gallè e Lalique. Bing seppe quindi attrarre a Parigi le personalità più importanti dell’arte di tutto il mondo, permettendo alle arti applicate di raggiungere un grado di maturità e di diffusione notevolissime. Siegried Bing morì a Vaucresson, in Francia, nel 1905. Con il suo lavoro di diffusione dell'arte, Samuel Bing riuscì a creare il gusto di una società e di un periodo storico. Ispirò e influenzò la produzione artistica dei personaggi legati all'Art Nouveau e non solo. Amanti delle linee semplici e "minimaliste", Bing e gli artisti dell'Art Nouveau si legavano all'idea dell'"opera d'arte totale", proseguendo e realizzando le tesi anglosassoni dell’Art & Craft, in una produzione artistica che abbattesse l'idea di superiorità di un'arte rispetto ad un'altra e che fondesse in sé tutte le arti, anche quelle considerate comunemente "minori". La destinazione quotidiana degli oggetti artistici, il coabitare di diversi materiali e intenti, elementi presenti in queste opere, superavano la concezione comune di "artistico" e stravolgevano il senso intellettuale ed elitario dello stesso termine di arte. In questo senso, ogni oggetto, anche il più comune, si trasformò in opera d'arte ospitata nella quotidianità e nella familiarità delle case divenute, in qualche modo, gallerie d'arte.
  Maison Bing  

Bibliografia
Liberty Art Nouveau - Giunti Editore - Lara Vinca Masini Il mobile del Novecento - De Agostini - Ornella Selvafolta Wikipedia.org


giovedì 22 ottobre 2015

Una specchiera da camino torinese



Che uno tra i pionieri dello stile rocaille in Francia fu un disegnatore e architetto di chiare origini piemontesi, forse non è cosa universalmente nota. Nominato da Luigi XV Dessinateur de la chambre et du cabinet du roi nel 1726 e autore del celeberrimo Livre d’ornament pubblicato nel 1734, Juste-Auréle Meissonier era di fatto nato a Torino, nel 1695. Cosa interessante se si pensa che di tutti gli Stati che frammentavano la nostra penisola nel XVIII secolo, nessuno si avvicinò tanto al gusto parigino del tempo quanto il Piemonte. Forse naturale conseguenza della continuità territoriale, quest’attitudine fu senz’altro incoraggiata dagli stretti legami dinastici che intercorsero tra le due famiglie regnanti e dall’influenza politica che Parigi esercitò sul Regno sabaudo a fasi alterne. Eppure, l’ascendente e il fascino emanato dalla Grandeur d’oltralpe non fu tale da offuscare l’orgoglio di una dinastia da sempre impegnata nell’ambizioso progetto di ampliare i confini dei propri possedimenti, con la ferrea intenzione di mantenere una salda autonomia. L’esito dell’assedio di Torino del 1706 da parte dei Francesi, ne è un sapido esempio: la città resistette coraggiosamente per centodiciassette giorni, fino a che Vittorio Amedeo II ed Eugenio di Savoia non giunsero finalmente in soccorso alla popolazione stremata, costringendo alla ritirata l’esercito di Luigi XIV. Trentamila uomini ebbero la meglio contro quarantasette mila. Questo episodio la dice lunga sul rapporto di fiera indipendenza che seppe dirottare l’ammirazione e il desiderio di emulazione in una direzione del tutto autonoma, delineando uno stile proprio, fedele alla propria identità.
Se un intelletto illuminato, per di più francese come il De Brosses, arrivò a definirla “la più bella città d’Italia e forse d’Europa” si può solo riconoscere che Vittorio Amedeo II, fresco del titolo di Re di Sicilia, fu assai lungimirante nel chiamare a Torino l’architetto messinese Filippo Juvarra e ad affidargli il compito di ammodernare la città per renderla degna di essere capitale di un Regno. E’ il 1714, Filippo Juvarra, allievo di Carlo Fontana, già noto presso varie corti europee in qualità di scenografo e progettista di apparati cerimoniali, possiede una tale versatilità e abilità nel manipolare lo spazio architettonico da ridefinire in breve tempo la prospettiva del capoluogo sabaudo. Ma la sua opera sarà fondamentale anche per lo sviluppo del décor cittadino: gli interni dei Palazzi, l’allestimento e la decorazione degli ambienti risentono della sua influenza, del resto non potrebbe essere altrimenti dal momento che egli stesso si occupa in prima persona degli appartamenti Reali ed esistono disegni di mobili di sua mano. I suoi modelli ispirano così i decoratori e i minusieri torinesi che riescono a dare nuova freschezza, rielaborandole, tipologie di arredo del tutto caratteristiche perché realizzate solo qui. Attribuito ad un anonimo intagliatore piemontese, appartenente con ogni probabilità alla cerchia dello Juvarra, e datato 1722 è il progetto per una caminiera oggi alla Fondazione Sella di Biella (Fig. 1 - Fondo F.Maggia, n. 564). L’annotazione sul foglio, redatta in una corsiva personale già tipicamente settecentesca, cita: “Guarnitura per fornello per il Gabinetto Grande di Sua Altezza reale verso levante”. Non è affatto difficile riconoscere in quel modello le realizzazioni che si possono ammirare ancora oggi, percorrendo alcune sale del Palazzo Reale e di Palazzo Madama. Del tutto prossimo al nostro disegno, seppur di esecuzione un po’ più tarda, ci pare infatti l’allestimento del Salotto delle Cameriste, a Palazzo Reale (Fig. 2), dove la specchiera da camino presenta quello stesso motivo a doppia lesena che si trova nel progetto del 1722 ed è allo stesso modo sovrastata da un’alta cornice ospitante un dipinto, in questo caso il ritratto di Maria Adelaide di Savoia, figlia di Vittorio Amedeo II, ad opera di Pierre Gobert. Anche se l’ornato e i volumi risultano più lievi che nello studio, la foggia è pressoché la stessa. L’intera decorazione della sala si colloca tra il 1730 e il 1740, anni in cui l’attività di rinnovamento degli appartamenti reali sotto la regia dell’architetto siciliano si fa più intensa ed interessante. Ma, dicevamo, si tratta di un tipo di mobilio peculiarmente torinese, e di fatto lo troviamo già eseguito nei primissimi anni del ‘700 per “l’appartamento nuovo” della Madama Reale Maria Giovanna di Savoia Nemours, madre di Vittorio Emanuele II (Fig. 3). Qui, certo, i robusti fregi laterali e la carnosa voluta del coronamento della cornice, abilmente intagliati da Michele Crotti, osservano ancora i dettami di un gusto pienamente barocco, ma l’impostazione d’insieme rimane identica. Anche qui una tela, incorniciata da ridondanti arabeschi intagliati, domina la specchiera: si tratta dell’immagine di Carlo Emanuele II, marito della sovrana, firmata da Lorenzo Dufour. Ma in una società come quella torinese, dove si trovava una tale comunità di rapporti tra ceti diversi quale non si trovava in nessun’altra città dell’epoca, questo specimen non poteva certo rimanere prerogativa esclusiva dei Palazzi Reali, così alla tavola 154 del catalogo Museo Civico di Torino edito nel 1963 a cura di Luigi Mallè, è riprodotta una caminiera del tutto simile come concezione agli esemplari aulici fin qui incontrati (Fig. 4), ma che verosimilmente doveva aver adornato il salone buono di una di quelle famiglie della nobiltà di origine borghese fortemente voluta da Vittorio Amedeo. Caminiera tavola 154 Museo Civico Torino 
particolare motivi ornamentaliLa specchiera disponibile su Anticonline: Collocabile al primo quarto del XVIII secolo, presenta una cornice riccamente intagliata con elementi decorativi ancora tardo seicenteschi. Probabilmente di simile provenienza, la specchiera che qui presentiamo s’impone come una perfetta e riuscita esecuzione del genere di arredo fin qui osservato. Di pregevole fattura e squisito intaglio, vi si ritrovano tutte le caratteristiche sino ad ora incontrate, pur non potendo evitare di scorgervi un che di inedito: le doppie lesene, che vanno a costituire i lati della cornice, sono accostate in un modo affatto insolito, offrendo un senso di tridimensionalità del tutto nuovo. Il motivo che le sormonta si scosta anch’esso dalla rigida formalità dei modelli precedenti (Fig. 5) e rammenta vagamente le decorazioni dal sapore bizzarro e fantasioso delle tavole di Jean Berain, il celebre disegnatore ed incisore di Luigi XIV ideatore di uno stile inconfondibile, emulato in tutta Europa. La cimasa, poi, ben più alta e articolata rispetto alle precedenti, è costituita da un fitto intreccio di fiori , foglie e agili svolazzi (Fig. 6) Ci troviamo di fronte ad una felice espressione della rocaille piemontese. Probabilmente riconducibile al terzo quarto del Settecento, questa importante caminiera, manifestazione di un archetipo acquisito, sintetizza felicemente elementi di sapore ancora Luigi XIV, seppur svaporati della loro rigidezza formale, e nuove fogge ed ornamentazioni già pienamente settecentesche, testimoniando come lo stile rococò a Torino si mantenne sempre contenuto entro precisi limiti e per quanto vicino alla Francia, fu distante dalle sue esuberanze. Bibliografia: DISEGNARE L’ORNATO, Interni piemontesi di Sei e Settecento, a cura di Giuseppe Dardanello, FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI TORINO, TORINO 2007 MOSTRA DEL BAROCCO PIEMONTESE, PALAZZO MADAMA – PALAZZO REALE – STUPINIGI, CATALOGO, Vittorio Viale, Volume III, TORINO 1963 PALAZZO MADAMA, Gli appartamenti delle Madame Reali di Savoia 1664 e 1724, Francesca Filippi, PROGETTO PALAZZO MADAMA, Quaderno 3, TORINO 2005 MUSEO CIVICO DI TORINO, Catalogo, Mobili e arredi lignei, Arazzi e bozzetti per arazzi, Luigi Mallé, TORINO 1972

mercoledì 14 ottobre 2015

Aesthetic Movement

Il movimento estetico, più tipicamente conosciuto a livello letterario, dal punto di vista delle arti applicate fu una sorta di particolare nicchia ascrivibile al più generale movimento delle Art And Craft inglesi. Vide la sua paternità nelle tesi e negli studi del saggista e scrittore inglese Walter Pater (1839-1894).
Studioso di Ruskin, cristallizzò nelle sue tesi il culto della bellezza, pur minato da un serpeggiante malessere che troverà nei suoi seguaci una più manifesta espressione, esaltandone un aspetto quasi religioso della vocazione estetica e giustificando il completo affrancamento del fatto artistico da qualsiasi impaccio o remore valoriale. Il movimento fu fondamentale in rappresentanza di una rottura completa con le idee che erano alla base della letteratura e della società vittoriana. La corrente artistico-letteraria ebbe una trasposizione anche nelle arti applicate, grazie soprattutto all’architetto gallese Owen Jones (1809-1874), e nella produzione di mobili in stile estetico che caratterizzò esclusivamente il XIX secolo. I tratti peculiari di tali produzioni di ebanisteria si ritrovano in mobili costruiti spesso in legno ebanizzato con lumeggiature e parti dorate, presentanti decori a sfondo naturalistico come fiori, uccelli, foglie di ginkgo e piume, anche intagliati, ed eventuali inserti in porcellana o in pannelli dipinti. In generale un impianto decorativo ed estetico simile allo stile letterario di riferimento, dove il tema della sensualità e della natura appare evidente. La produzione di tali mobili è stata presumibilmente circoscritta a pochi anni intorno alla fine dell’800, per poi pressoché sparire con il nuovo secolo.

Le opere disponibili su Anticonline:
- Credenza Ebanizzata con vani laterali a giorno decorati con fondo dorato e inciso. Presenta coppia di ante intagliate e di cassetti. Alzata con balconcino e specchio bisellato centrale e coppia di formelle dipinte con ninfe in contesto floreale su fondo dorato. Retta da gambe tornite raccordate da ripiano. Profili dorati. Interamente ebanizzata.
Credenza Ebanizzata Aesthetic Movement

- Credenza scantonata con alzatina, presenta vani a giorno e anta centrale con vetro bisellato e pannello ebanizzato, medaglione dipinto. Nell'alzata specchio e pannelli ebanizzati con formelle dipinte. Presenta colonnine ebanizzate, incisioni e decorazioni tipiche delle produzione Aesthetic Movement.

 Credenza Aesthetic Movement

lunedì 5 ottobre 2015

La Shapland & Petter Furnitures

La Shapland & Petter Furnitures venne fondata intorno alla metà del XIX secolo nella città fluviale di Barnstaple North Devon in Inghilterra da Henry Shapland, ebanista di professione. Con Henry Petter, contabile e venditore, inizierà la collaborazione che porterà in breve tempo la Shapland e Petter Ltd ad ruolo predominante nell'economia della città, riuscendo ad impiegare fino a 350 artigiani alla volta come designer, intagliatori, ebanisti, macchinisti, lucidatori e operai. La società fu anche una delle prime di installare dispositivi salva-lavoro americani e ad adottare macchinari di avanguardia. Caratteristiche distintive della produzione Shapland e Petter furono l'uso dell’intaglio a foggia di cuore, le forme geometriche con archi angolati e l'applicazione di pannelli di rame a sbalzo. Decorazione con intarsi spesso raffiguranti baccelli di semi e germogli, inserti in metallo, il montaggio di cabochon in ceramica e smalto erano tecniche padroneggiate con maestria grazie alla combinazione di capacità di tradizione artigianale e uso di macchinari innovativi. Tutto questo concorse al prestigio della factory rinomandola per le produzioni estremamente ben fatte, curate e caratterizzate da materiali di alta qualità. Si presume che lo stesso Ashbee, intorno alla fine deXIX secolo, abbia tenuto un corso di diverse settimane sulla progettazione e decorazione di mobili proprio presso lo stabilimento di Shapland e Petter; coinvolgendo il loro personale e quelli di altri produttori di mobili locali. Risulta interessante la somiglianza tra alcuni dei suoi disegni e quelli utilizzati dal Shapland e Petter, in particolare in relazione al disegno floreale intarsiato.