martedì 22 dicembre 2015

Analisi dell'opera: Madonna col Bambino e San Giovannino


Tavola con Madonna, Gesù bambino e GiovanninoProprio in tempi, come il nostro, in cui il pregiudizio (basato sul perdurante fanatismo romantico per il titanico atto creativo) continua a privilegiare l’originalità, e dunque l’invenzione contenuta nell’opera d’arte, degradandone, ad esempio, la ripetizione, anche per mano del suo inventore e legittimo proprietario, a replica (ciò che sempre implica una squalificante banalità), si dovrebbero allora maggiormente apprezzare anche i falsi creativi, cioè quei falsi che non sono mere ripetizioni d’opere già note, ma anche (seppur sempre d’intenzione truffaldina) ricreazioni d’opere nuove nel plausibile stile dell’Autore imitato. Per essere accettate, esse devono corrispondere alla visione che si ha dell’artista coinvolto nel momento dell’imitazione pur sempre datata e fatalmente caduca. La scoperta del loro status spurio richiede il passare del tempo, quello necessario a che di quella visione si rivelino gli errori; ma, d’altro canto, consente al lettore moderno di vedervi riflesso come in uno specchio i valori in auge all’epoca del falso, attribuiti all’artista per accrescerne la gradevolezza presso gl’immediati destinatari. Sicché non meraviglia che anche a noi appaia stupenda questa Madonna col Bambino e San Giovannino, e quasi per gli stessi motivi che fin dall’Ottocento ne facilitarono l’approdo, in una prestigiosa Collezione nobiliare milanese e poi la gelosa conservazione come della più bella tavola mai dipinta da Bernardino Luini. Questa Nostra Donna dall’ampia fronte si prova infatti, con gran successo, a conciliare una misteriosa evasività camuffata da modestia, di stampo leonardesco, col carattere beatamente sereno della sua fiorente bellezza (che vorrebbe imprimerle un suggello luinesco). In realtà, essa persegue per l'artista lombardo l’idea d’una fase formativa di spinta soggezione leonardesca (come ad esempio quelle di Cesare da Sesto o Yanez de la Almedina), del tutto plausibile vista la predominanza di Leonardo a Milano, ed anzi la sua presenza fisica ancora alla fine del primo decennio del Cinquecento per la realizzazione della versione londinese della Vergine delle Rocce. Essa troverebbe appoggio nella sicura derivazione della presente tavola dalla Sant’Anna Metterza con San Giovannino ora al Louvre,
  ove soltanto si sciolto il piramidale gruppo Madre-Figlia, eliminandone l’imbarazzante instabilità col ridurlo alla sola Vergine, ora ricondotta a presenza maestosamente sovrastante, assumendo il ruolo regale che le compete. Lo testimonierebbe anche, del resto, la deduzione dalla tavola parigina del gruppo del Bambino che gioca coll’agnello, sia pur specularmente rovesciato.. Senonché questa deduzione dovrebbe essere avvenuta prima di quel 1512 in cui il Luini dipinge e data il Madonnone di Chiaravalle, in modi del tutto classicheggianti che, ove fosse necessario, lo mostrerebbe già emancipato dalla supposta dipendenza leonardesca, almeno nella misura che gli sarà poi sempre propria: mentre in realtà è certo che la Sant’Anna Metterza non fu mai a Milano prima del 1520, quando, essendo rimasta giacente tra i beni lasciati da Leonardo, vi fu condotta, forse da Francesco Melzi di ritorno da Amboise (è oggi conservata al Louvre perché donata al suo Re dal cardinale Richelieu, che l’ebbe nel 1629 all’assedio di Casale). E del resto, quest’idea ha potuto suonare attendibile soltanto fino a quando, negli anni ‘70 nel Novecento, s’è scoperta la vera, e sorprendente, fase giovanile di Bernardino Luini, nient’affatto leonardesca e del tutto dipendente, invece, da Marco Marziale e Bramantino: come documentano ad esempio, il Compianto di Cristo del Museo di Budapest, datato1506, e la Sacra Conversazione dello Jacquemart André, datata 1507, . In realtà, ancor più, ed a prima vista, allarmano sia la risonanza dell’ampio paese retrostante, che riesce a porre sulle spalle della Vergine l’incombente minaccia di candide montagne marmoree (un dato leonardesco, ma limitato all’Annunciazione di San Leonardo a Scopeto, che il vero Luini non poté mai conoscere), che l’evasività troppo spiccia del velato orizzonte acqueo, eccessivamente sintetica per un autentico tardoquattrocentista. Allo stesso modo, sarebbe stato per lui irrealizzabile il profondo bleu cobalto del manto della Vergine; ed addirittura per lui inconcepibile il raso drappeggiato come velo della Vergine, rivelatore pezzo di bravura da cui l’ottocentista falsario non è riuscito ad esimersi. A queste osservazioni si devono aggiungere quelle tecniche del lume eccessivamente flavo, della magrezza della materia e della mancanza d’ogni craquelure e segno d'invecchiamento della vernice. Così posti in allarme, non è difficile riconoscere come la presente composizione derivi da una molto tarda parafrasi del Luini del soggetto leonardesco, (del terzo decennio del Cinquecento, quando quel prototipo era ormai a Milano) documentata dal dipinto già in Collezione Lazzaroni Roma, che significativamente anticipa tutta la parte bassa del nostro, rinunciando all’intenibile pausa di paesaggio retrostante (che, al solito, è invece delineato come soffocantemente inespressivo) ed omettendo anche l’altro dato maggiormente sospetto, ovvero l’ambiguità maliziosa della Vergine. Del resto, che la tavola leonardesca, quando pervenne a Milano, divenisse spunto di riflessione per il Luini maggiore è documentato anche dall’affresco dello stesso soggetto nel lunettone di santa Maria degli Angeli a Lugano (dipinto verso il 1629) assai meno ambiguamente leonardesco, improntato cioè alla solita serenità liliale, ed un poco stucchevolmente incosciente, del vero Luini). Si deduce dunque che la tavola qui discussa è una ricreazione ottocentesca, probabilmente d’ambito milanese (nella stessa logica della copia del Molteni del Matrimonio della Vergine di Raffaello, ormai giunta a Brera) del dipinto già Lazzaroni, affascinante per via delle geniali ma equivoche variazioni in chiave leonardesca di cui s’è detto.

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